LA DIVERSITA’

 

Sono una ragazza perfettamente normale, con una vita normale, ma che da piccola era definita DIVERSA . Diversa perché ero dislessica, perché avevo degli strumenti che i miei compagni non avevano, perché gli insegnanti, alcune volte, mi davano attenzioni.

Mia madre vide che fin da piccola avevo alcuni “ritardi”, come ad esempio nel camminare o semplicemente nella parole e anche nel linguaggio. Lei mi portò da loro,  che lei le chiamava Logopediste, ma che io non riuscivo a dargli una definizione perché per me erano estranei, erano persone che non rientravano nella mia conoscenza.

Non volevo andarci ogni volta per me era una vera e propria tortura, ma con il passare del tempo e soprattutto crescendo ho apprezzato quello che loro facevano per me.

Mi hanno aiutato a capire che il fatto che io ero diversa era una cosa molto positiva, che dovevo valorizzare questa diversità, sono riuscita ad avere carattere ed a non dire più SI ma riuscivo anche a dire NO, riuscivo a rispondere a quelle persone che mi prendevano in giro per la mia diversità, ma di ciò ne facevo un mio punto forte. In quei momenti mi sentivo forte, imbattibile e ancora oggi mi ci sento, non perché sono diversa ma perché accetto il fatto che lo sono. Oggi ho 18 anni faccio il quarto liceo delle scienze umane e ho una bellissima pagella, come ho già detto sono una ragazza PERFETTAMENTE NORMALE.

Carlotta Iacorossi

Sono Francesca Sonnino, sono stata una delle sue logopediste. Le ho detto oggi che no, lei non è normale. Non è normale perché non è nella norma dover lottare con se stessi già a sei anni, non è normale arrivare alla consapevolezza di sé prima dei 12 anni, non è normale doversi informare sui propri diritti ed imporli già alle scuole medie.

E non è normale, per i ragazzi DSA, avere grandi sogni e perseguirli.

Carlotta ha vinto, comunque vada, ha vinto.

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Le Madri – capitolo 1

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La sala d’attesa di un ambulatorio di riabilitazione (pubblico o privato che sia), è un luogo “altro” con funzioni di vario tipo. Certo, si attende, ma si può attendere in molti modi: chiacchierare, leggere, giocare col telefonino, origliare conversazioni e terapie, telefonare, pensare, RIPOSARE.

Negli anni ho lavorato in strutture anche molto grandi, con ampie sale d’attesa e sulle sedie 50, 60 madri che aspettano i 45 minuti, a volte 90.

Quasi tutte madri, i padri accompagnano meno e, secondo me, si perdono qualcosa, ma tant’è.

Qui a Riabilmente la sala è piccolina, “raccolta” è un eufemismo. Poche sedie ma un fantastico wifi che, se da un lato offre intrattenimento e distrazione, dall’altro impedisce un po’ di sana socializzazione tra persone che, in fondo, condividono le stesse preoccupazioni e le stesse difficoltà.

Nel caso non si sia dotati di smartphone (non mi pare sia possibile, questa eventualità), si può tranquillamente tendere l’orecchio ed ascoltare cosa succede durante il tempo della terapia, ché le mura son fatte di carta velina.

Ma non è di questo che volevo parlare. Volevo parlare di madri, delle cose buone e meno buone che ho visto in questo mio tempo di logopedista e di quello che succede a noi terapist* quando comunichiamo con le madri.

C’è differenza tra le madri che accompagnano i piccolini e quelle che portano i “medi” o i “grandi”. C’è differenza come è giusto che sia. La differenza che passa tra chi di guerre ne ha già fatte ed è sopravvissuta e chi la guerra l’ha appena cominciata e non sa se ne uscirà indenne.

Di solito è la madre che avverte che qualcosa non quadra, non va, non è come dovrebbe essere. Ed è un sentire angosciato, spaventato.

Le domande iniziano a entrare in testa come un punteruolo, un parassita, una pianta grassa nel cervello.

Adesso cosa faccio? da chi devo andare? chi mi dirà cosa succede? e sapranno dirmelo? se è grave? avrà un futuro? saprò affrontarlo? sarà felice? sarò felice io?

Le paure che iniziano a crescere e a prendere forme nere e liquide. Liquide da entrare in ogni circonvoluzione del cervello, invadere pensieri e vista.

A volte poi la vista si annebbia e si smette di vedere. Troppo dolore e troppa enormità: un figlio, mi* figli*, ha qualcosa che non va. No. Non è vero. Esagerate tutti. Va bene così. Forse no. Massì, crescerà e cambierà. O no?. Vedi? questo lo fa. Quello lo imparerà. No, non è necessario portarlo da uno specialista. E quale poi? il neuropsichiatra no, è troppo, non ne ha bisogno.

Ma prima o poi, che sia la spinta delle domande o la spinta della paura, bisogna andare a chiedere aiuto.

E la prima volta non è quasi mai quella giusta. Lo specialista, la persona, i modi, la diagnosi frettolosa. Non basta mai la prima volta. Si può essere fortunati, ma non sempre.

Inizia allora il tour degli ospedali, dei medici, delle valutazioni, delle pagine facebook, di google, degli amici e conoscenti, insegnanti, nonni, zii…

Quasi sempre (ripeto quasi sempre, non sempre) le madri sono sole. Come un parafulmine sul tetto stanno lì, a prendersi scariche elettriche fatte di informazioni vaghe e imprecise, sensazioni proprie ed altrui, ipotesi risolutive che non risuonano.

Perché quando la diagnosi arriva, quale che sia, bisogna innanzitutto capirla e trovare qualcuno che sappia spiegarla per bene.

E dal mio punto di vista vi dico che non è facile. Non è facile per noi da questo lato della barricata, perché siamo persone e siamo consapevoli che stiamo per ferire, per rompere un equilibrio, per dire ad una madre (e ad un padre, spesso): “tu* figli* non è come l* avresti voluto tu, non sarà come l* avevi immaginato, non sarà uguale alle tue fantasie ed alle idee che tutti, tutti abbiamo in testa quando pensiamo a chi stiamo per mettere al mondo”.

Noi sappiamo che esiste una differenza tra una diagnosi ed un’altra, che esistono situazioni più gravi di altre ma, la prima volta, è terrorizzante per tutti.

Le madri faticano a chiedere spiegazioni o a fare domande; soprattutto le prime volte. Paura, vergogna.

Partono, le madri, con le loro folli organizzazioni quotidiane, nelle quali infilare la terapia (due, tre, quattro volte a  settimana), le visite specialistiche periodiche, i documenti INPS, il CAF, lo sport (che hanno detto che fa bene), gli scout (che hanno detto che fa bene), i tempi la mattina (che hanno detto che deve vestirsi da sol*), leva il ciuccio (che hanno detto che fa male), leva il passeggino (che hanno detto che fa male), leva il pannolino (che hanno detto che se deve da levà), le feste (che deve socializzare).

Il tempo delle madri diventa questo. Organizzazione, spostamenti, incastri magici, seguire le indicazioni.

Seevabbé, per questo ci vuole un po’: voglio vedere voi terapisti a svegliarvi alle sei per farl* vestire da sol* che ci mette 15 anni e 34 mesi solo per abbottonarsi e si butta per terra tipo giocattolo rotto oppure stare lì ogni dieci minuti a chiedere se deve andare in bagno che tanto non lo dice e ormai viviamo vicino al water; resistete voi ai pianti infiniti la sera per riavere ciuccio e biberon, voglio vedere voi a inseguirli il pomeriggio per fare i compiti che manco se li lego al tavolo ci si mettono. E teneteveli voi quando si disperano perché non capiscono quello che chiedo o quando io non capisco quello che chiedono loro. Guardateli voi cercare di fare cose che non riescono a fare senza farlo al posto loro.

Ma le madri imparano, quasi tutte, a dilatare la giornata e infilare 30 ore in 24 e, se decidono di fidarsi, cambiano.

Le madri cambiano.

Per amore dei figli. Per paura del futuro. Per curarsi e curare le ferite.

E noi ci siamo, le facciamo quelle cose lì. Certo solo 45 minuti per volta, ma ci siamo, non ve lo dimenticate, Madri.

 

La settimana

Questa è stata una lunga, strana settimana.

Anche stancante direi. Di quelle stanchezze che ti fanno sentire che hai fatto il tuo dovere.

Va detto che sono una logopedista vintage, formata in epoche paleozoiche, quando neuroscienze e diagnosi precise erano fantascienza.

Son rimasta un po’ così.

La settimana si è aperta con una mamma preoccupata. Il pediatra le ha detto di fare una visita per sospetto autismo.

Ora, sono ben contenta che i pediatri si stiano formando per riconoscere segnali di problematiche complesse e faticose da gestire e per le quali è necessario un intervento precoce/precocissimo. Ben contenta che abbiano imparato il decalogo del riconoscimento di x,y e z; ma preferirei un po’ di buon senso. Giusto un po’.

Se invece di usare sempre e comunque la parola “chiusura” per indicare il comportamento di un bambino che interagisce poco con gli altri, riprendessimo l’antico utilizzo del termine “timidezza”, forse ci capiremmo un po’ di più.

Se un bambino con un disturbo del linguaggio tende ad isolarsi e ad allontanarsi dai coetanei, ma predilige avere a che fare con gli adulti (seppur con un po’ di diffidenza), possiamo provare a pensare, prima di ogni altra cosa, che il non essere capito e l’essere preso in giro (perché capita, capita sempre) portano spesso all’isolamento ed alla sfiducia.

Per dirne una.

Insomma, prima di sparare su un genitore una diagnosi forte e preoccupante, pensateci un paio di volte o trovate parole migliori.

Che i pezzi poi li raccogliamo noi.