Venerdì e sabato, qui a Monterotondo, c’è stato un corso sull’autismo con Giovanni Magoni e Flavia Caretto di CulturAutismo.
Li ringrazio per esserci stati e per aver portato la loro sovrumana esperienza fin quassù.
La mia attenzione va e viene, non sono in grado di restare concentrata per più di un tot e, quindi, per ottimizzare, cerco di cogliere alcuni punti e rifletterci sopra. Son fatta così.
Su cosa mi sono concentrata?
Loro non usano mai la parola “autistico”. Mai. Dicono “persona con autismo“.
Usano il termine “neuroatipico” a fronte di “neurotipico”.
Considerano i comportamenti problematici come (e scusate l’eccesso di semplificazione) una forma di comunicazione.
Considerano l’ecolalia (e scusate sempre l’eccesso di semplificazione) una forma di comunicazione.
Chiedono ai neuroatipici di “testare” il materiale e spiegarne l’interpretazione possibile per loro.
Parlano di “cervello sociale“.
Chiedono di non obbligare le persone con autismo a guardare negli occhi.
Questo, se ci pensate, cambia del tutto il punto di vista. Completamente.
Ho di fronte una persona che, per quanto sia difficile per me comprenderlo appieno, non ha “in automatico” le informazioni sociali che tipicamente io posseggo.
Diventa necessario quindi che IO mi adatti e non il contrario.
Diventa prioritario eliminare le etichette, perché non servono a nulla: provocatorio? no, sta esprimendo, nell’unico modo che conosce, una esigenza o una interazione; aggressivo? no, TU non stai capendo qualcosa che per lui è importante; oppositivo? dipende da cosa hai chiesto e soprattutto come lo hai chiesto e se la richiesta ha un senso per un pensiero atipico.
Partendo da questo, tutto il progetto riabilitativo cambia. Completamente. Si ribaltano i principi, si ricalibrano gli obbiettivi e ci si ritrova davanti ad un BAMBINO (per chi come me si occupa di età evolutiva) con esigenze che io terapista devo imparare a conoscere e riconoscere prima di ipotizzare, anche lontanamente, di insegnare qualcosa a lui.
Adoro Culturautismo. Adoro.