Le grandi domande, in questo periodo.
Suppongo la risposta non sia uguale per tutt*.
Quello che so per certo è che se questo lavoro non te lo “senti”, non resisti per più di 4/5 anni.
Non che sia una missione, per carità; quando mi si dice che con questo lavoro mi guadagno un posto in paradiso, risponderei, se potessi, direttamente con una randellata sulle gengive dell’interlocutore.
Mi pagano per questo lavoro (poco o molto che sia), ci vivo, ci pago l’affitto e le bollette. Non è certo volontariato.
Dopo 35 anni mi piace ancora e non per gli stessi motivi.
Questo è un lavoro che, fondamentalmente, ti costringe ad una evoluzione personale costante e inesorabile. Non puoi restare uguale a te stessa, non puoi reiterare gli stessi schemi. Qui più che in altri mestieri.
Perché hai a che fare con persone e le persone cambiano individualmente e anche globalmente. Le modalità di interazione possibili 35 anni fa, sono impensabili nel 2018.
Certo apprezzavo molto i regali che mi sono arrivati i primi anni: casse di ciliege, guantiere di dolci, improbabili fontane di plastica luminose, torroni di Benevento… Ma queste sono nostalgie personali.
Un neuropsichiatra con il quale ho lavorato sosteneva che questo lavoro si sceglie perché dentro è rimast* un/una bambin* ferito che chiede di essere curat*. Qualcosa ha lasciato una cicatrice che, crescendo, sanguina ancora.
In parte è vero, in parte no. In parte è una buona cosa, in parte no.
E’ vero che si diventa “guaritori” (e lasciatemi passare il termine per quanto impreciso ed inadatto a questo settore), per imparare a guarirsi; è vero anche che si tratta di un buon lavoro con decenti sicurezze (difficile rimanere disoccupat*).
E’ in parte una buona cosa perché nutre la determinazione, l’ostinazione e la caparbietà; in parte non è una buona cosa perché passare il tempo a cercare la propria ferita nel corpo degli altri porta danni.
Ma se non hai dentro un pezzo di questo bisogno, non resisti, molli.
Affrontare, ogni giorno, per 6/8 ore di seguito, l’emotività di bambini piccoli e spaventati, può essere devastante.
I primi anni passi intere giornate a pensare cosa fare, come farlo, perché quel bambino fa così, percome e percosa.
La sera ti metti a letto e ti accorgi di avere sotto le coperte 13 ragazzini che aspettano te per sapere cosa fare.
Non si regge a lungo. E proprio per questo ti costringe ad evolverti. Evolverti verso un equilibrio delicato e fragile: saper esserci quando serve, staccare quando serve.
Si affronta la formazione, all’inizio, con una fame lupesca. Ogni punto di vista, studio, pubblicazione e metodo, ti sembrano la SOLUZIONE. Altre volte ti sembra diano ragione a te e a quello che stai imparando mentre “fai”. Poi cambi e impari a selezionare quello che ti serve.
I primi anni passano in una guerra senza confini con tutti, dico tutti, i genitori che incontri. Hanno sempre torto. Sbagliano sempre. Non sanno mai fare la cosa giusta. Non ti ascoltano. Rovinano il tuo lavoro.
Ma non è questo il punto. Il punto è che ogni genitore è il TUO genitore. Ad ognuno di loro imputi le stesse identiche responsabilità che imputi ai tuoi. Loro sono mamma e papà. Loro sono la tua battaglia per cambiare quello che la tua famiglia ha fatto con te e che non andava bene per te. Anche in questo ci si evolve, e molto. A volte semplicemente facendo figli, cosa che ti costringe a passare dalla parte dello “oppressore” ed iniziare a comprendere la natura dei rapporti familiari, i limiti e le meraviglie. Altre volte semplicemente cresci, smetti di essere “figli*” perdoni ed inizi finalmente a vedere le famiglie dei bimbi che segui per quello che sono. Persone. Persone con una storia. Spaventate e spesso sole. Persone che portano a passeggio pesi enormi che te li sogni. Persone che fanno quello che sanno fare al meglio delle proprie possibilità.
Così impari pure a parlarci. Abbandoni il piglio garibaldino e inizi a “comunicare”. Questo può cambiare le cose.
Evoluzioni su evoluzioni.
Ognun* di noi porta in terapia ciò che è. Troverete terapiste più morbide e altre del tipo “rottenmeier”; troverete terapiste timide o iperverbali, terapiste che sanno inventare e altre che sanno applicare. Teoriche e pratiche, espansive e introverse. Accoglienti o respingenti. E lavoreranno, con i bambini con quello che sono.
E non fermatevi alle apparenze, contano poco. Non è la simpatia che fa una buona terapista come non è l’antipatia a fare una cattiva terapista. Capisco che, per i genitori, sia giusto e importante basarsi, all’inizio, sull’impressione “a pelle”, ma la cosa davvero importante da vedere è se vostr* figli*, esce dalla terapia sorridendo o se vi dice “ho giocato” (col mazzo che ci facciamo per inventarci lavori travestiti da giochi, per noi è un risultatone, non scambiatelo per fancazzismo) o ancora se ha voglia di tornare.
Perché ho scelto questo lavoro?
All’inizio mi ci sono trovata, anzi sono stata costretta, per essere sincera. Poi ho inseguito le mie guarigioni. Negli anni ’80 si guadagnava be-nis-si-mo. Poi ho fatto altro. Poi sono tornata a fare la logopedista e mi sono resa conto di varie cose: mi piace vedere i bambini crescere, mi piace ottenere risultati, mi piace non avere capi, mi piace l’autonomia, mi piace avere a che fare con la gente, mi piace dare una mano ai genitori e sì, mi piace sentirmi utile.
Comunque, in tutto questo, non chiamateci “maestre”, Vi prego.